Aristotele, nel suo trattato di fisica, scritto oltre duemila trecento anni fa, ha posto un interrogativo fondamentale: se ogni ente occupa uno spazio, allora lo spazio stesso dovrebbe occuparne un altro, innescando così un regresso all’infinito. L’idea di uno spazio continuo e illimitato, alla luce di questo ragionamento, risulta problematica.
L’enigma della realtà: lo spaziotempo a grana fine
Similmente a come l’acqua, pur apparendo come un fluido continuo a occhio nudo, è in realtà composta da discrete molecole, lo spaziotempo, sebbene percepito come un continuum su larga scala, potrebbe rivelarsi discreto a livello quantistico.
Questa analogia suggerisce che la nostra percezione della realtà, limitata dalla risoluzione dei nostri sensi e delle nostre strutture cerebrali, potrebbe non catturare la vera natura granulare dello spaziotempo a scale estremamente piccole.
La dimensione spaziale di un pixel, in questo contesto, sarebbe logicamente determinata dal prodotto tra l’intervallo di tempo discreto (o ‘bin temporale’) e la velocità della luce, una costante fondamentale universale secondo la relatività di Einstein.
Dato che la gravità è intrinsecamente legata alla curvatura dello spaziotempo, qualsiasi discretizzazione di quest’ultimo dovrebbe essere coerente con la sua natura quantistica.
L’illusione della continuità: la vera natura dello spaziotempo
L’incapacità di unificare la meccanica quantistica con la gravità, evidenziata dal paradosso dell’informazione nei buchi neri e dalla natura delle singolarità, suggerisce che potrebbe esserci un errore fondamentale nelle nostre attuali teorie.
Una possibile spiegazione risiede nell’assunzione di continuità dello spaziotempo. Se esso fosse in realtà discreto, a grana più fine, come suggerisce l’analogia con la struttura molecolare dell’acqua, potremmo essere più vicini a risolvere questi enigmi della gravità quantistica.
Nel 1955, John Wheeler ha proposto l’ipotesi che le incertezze quantistiche dello spaziotempo raggiungessero un valore significativo alla scala di Planck, dando luogo a fluttuazioni significative nella topologia dello spaziotempo, da lui denominate ‘schiuma spaziotemporale’.
Se lo spaziotempo possedesse una struttura discreta, il moto delle particelle al suo interno sarebbe quantizzato, analogamente ai frame di una simulazione al computer. Ciò implicherebbe un moto non continuo, caratterizzato da salti quantici, e la comparsa di eventi discreti ad ogni variazione dello stato del sistema, in particolare a scale prossime alla lunghezza di Planck.
Se raggiugessimo la scala di Planck, la ‘schiuma spaziotemporale’ di Wheeler rivelerebbe una struttura discreta dello spaziotempo, simile a un film composto da fotogrammi individuali separati da intervalli di tempo minimi e da pixel spaziali. Questa granularità intrinseca potrebbe fornire una spiegazione alternativa per fenomeni come l’energia oscura e la materia oscura, attribuendoli a proprietà emergenti di questa struttura fondamentale dello spaziotempo.
La scala di Planck, caratterizzata da una massa enormemente superiore a quella del protone e da lunghezze e tempi estremamente piccoli rispetto alle scale atomiche e cosmiche, sembra lontana dalle dimensioni e dai tempi che osserviamo nell’universo attuale.
L’età dell’universo e la densità di energia oscura, ad esempio, sono ordini di grandezza nettamente superiori e inferiori, rispettivamente, alle corrispondenti quantità di Planck. Questa apparente discrepanza solleva interrogativi sulla rilevanza della discretizzazione dello spaziotempo a scala di Planck, come proposto da Wheeler, per descrivere l’universo a noi noto.
Il fine della fisica: unificare tutto, dalla materia oscura all’origine dell’universo
L’astrofisico Moti Milgrom ha evidenziato che la necessità di invocare la materia oscura emerge quando l’accelerazione gravitazionale nelle regioni esterne delle galassie scende al di sotto di un valore critico, legato all’età dell’universo.
Se si ipotizza che questa soglia sia determinata dalle fluttuazioni del vuoto quantico, allora il problema della materia oscura potrebbe essere ricondotto alla densità di energia del vuoto. In questo scenario, la densità di energia del vuoto sarebbe correlata all’accelerazione di Milgrom in modo analogo a come la densità di energia di un campo elettromagnetico è legata al quadrato del campo elettrico nell’elettrodinamica quantistica.
Unificare la materia oscura e l’energia oscura in una singola spiegazione sarebbe un risultato straordinario, ma al momento non esiste una teoria coerente che permetta di collegare questi due enigmi della cosmologia. In particolare, i modelli convenzionali di gravità quantistica non offrono una via diretta per tale unificazione.
I fisici sperano che una futura teoria unificata della meccanica quantistica e della gravità possa fornire una spiegazione comune per l’energia oscura e la materia oscura. Tuttavia, al momento, le evidenze sperimentali e teoriche non supportano un legame diretto tra questi due fenomeni.
La ricerca attuale si concentra principalmente sulla detezione diretta delle particelle di materia oscura, mentre nel contesto delle teorie delle stringhe si ipotizza un vasto paesaggio di possibili universi con diverse densità di energia del vuoto.
Il principio antropico suggerisce che il nostro universo, con una densità di energia del vuoto tale da permettere l’esistenza della vita, è solo uno dei tanti possibili, selezionato da un processo di autoselezione cosmica.
Il principio antropico, pur affascinante, presenta il limite intrinseco della non falsificabilità. La mia speranza è riposta piuttosto nell’incontro con una civiltà extraterrestre avanzata, capace di svelare i misteri più profondi dell’universo.
Potremmo apprendere dai loro scienziati come funzionano i buchi neri o cosa è accaduto prima del Big Bang. In particolare, gli ingegneri specializzati in gravità quantistica potrebbero possedere le conoscenze necessarie per creare un universo in laboratorio, offrendoci una spiegazione scientifica all’enigma cosmico racchiuso nella frase ‘In principio Dio creò i cieli e la terra’.
Invece di invocare un multiverso infinito e improbabile per giustificare la nostra esistenza, potremmo considerare l’ipotesi che il nostro universo sia il risultato di un atto di ingegneria cosmica.
In questa prospettiva, la nostra presenza non sarebbe dovuta a fluttuazioni casuali del vuoto, ma a una scelta intenzionale. Questa consapevolezza conferirebbe alla nostra esistenza un significato profondo e inaspettato.
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